COME USCIRE DALLA TRAPPOLA

 

 

 

Questo è l'articolo di cui un periodico tedescose ne accenna nel quinto capitoloha rifiutato la pubblicazione. È qui riprodotto poiché può essere utile come sintesi di alcuni concetti esposti nel libro.

Si legge continuamente sui giornali come sia ormai statisticamente dimostrato che la maggior parte delle persone che maltrattano i figli hanno a loro volta subito maltrattamenti da bambini. È un'informazione non del tutto esatta, nel senso che non si tratta della 'maggior parte', ma di tutti. Chiunque maltratti i propri figli è stato a sua volta in qualche modo gravemente traumatizzato durante l'infanzia. È un principio che non ammette eccezioni, perché è assolutamente impossibile che una persona cresciuta in un ambiente aperto, rispettoso e affettuoso posso essere indotta a vessare creature più deboli e ad arrecare loro danni permanenti. Questa persona ha appreso in passato che è giusto dare protezione e orientamento al piccolo essere indifeso, e questa consapevolezza, precocemente immagazzinata nelle strutture fisiche e mentali, rimarrà efficace per tutta la vita. Il principio sopra enunciato vale senza eccezione, anche se molte persone non sono quasi in grado di ricordare qualcosa delle sofferenze patite durante l'infanzia, perché hanno imparato a giustificarle come una meritata punizione della propria presunta malvagità e perché il bambino — per sopravvivere — deve rimuovere gli episodi dolorosi. Ecco perché sociologi, psicologi e altri esperti — nonostante le cognizioni nel frattempo acquisite — continuano a scrivere che non si sa come insorgano gli abusi commessi sui bambini, e speculano sull'influsso di condizioni abitative inadeguate, della disoccupazione o della paura della bomba atomica.

In realtà, con affermazioni simili, giustifichiamo ciò che i nostri genitori hanno fatto a noi. Perché non esiste altra spiegazione delle violenze sui minori che non sia la rimozione dei maltrattamenti e dei disorientamenti personalmente patiti. Non c'è condizione abitativa soffocante, non c'è povertà anche grave che possano indurre un individuo a compiere azioni simili. Solo chi sia stato vittima di queste azioni e insista nella loro rimozione, corre a sua volta il pericolo di distruggere la vita altrui.

I cosiddetti bambini difficili, 'insopportabili', sono stati resi tali dagli adulti. E non sempre dai genitori. Perché spesso un notevole contributo viene già dalla prassi che vige in molte cliniche, nel momento del parto e subito dopo il parto. Ci sono genitori che sanno compensare questi traumi mediante un comportamento affettuoso, perché li prendono sul serio e non ne negano la pericolosità. Invece, i genitori che insistono nel mantenere rimossi i traumi più gravi che hanno personalmente subito, ne sminuiscono spessissimo, per banale ignoranza, l'incidenza che hanno sui loro figli, e innescano così, inutilmente, una nuova concatenazione di crudeltà. E la loro insensibilità per le sofferenze del bambino trova il pieno appoggio della società, perché la maggior parte delle persone — esperti compresi — condivide questa cecità. L'unico mezzo contro la diffusione di una malattia è costituito dalle informazioni corrette e ben documentate sugli agenti patogeni. I genitori che ricorrono ai maltrattamenti hanno bisogno di informazioni chiare; avvertono essi stessi, confusamente, che c'è qualcosa che non va quando sfogano la loro rabbia sul bambino indifeso o quando soddisfano su di lui i loro appetiti sessuali. Invece di prendere tutto questo sul serio, gli esperti menano il can per l'aia perché temono che possano derivarne complessi di colpa per i genitori e non vogliono — sbagliando — che questo accada, in nessun caso. Quest'opinione, secondo cui non si dovrebbero mai colpevolizzare i genitori, qualunque cosa abbiano fatto, ha causato molti guasti. Guardiamo alla situazione concreta. Col patto della riproduzione i genitori si assumono un impegno, quello di provvedere al bambino, di proteggerlo, di soddisfarne le esigenze e di non maltrattarlo. Se non fanno fronte a quest'impegno, rimangono debitori di qualcosa al bambino, esattamente come quando rimangono debitori di qualcosa alla banca se contraggono un mutuo. Restano obbligati indipendentemente dal fatto che siano o meno consapevoli delle conseguenze di ciò che fanno. È lecito mettere al mondo un bambino e dimenticare gli obblighi connessi? Il bambino non è un giocattolo, non è un gattino, ma una creatura piena di bisogni che necessita di un'assistenza affettuosa per dispiegare le proprie potenzialità. Se non si è disposti a dargliela, allora si rinunci a mettere al mondo dei figli. Sono parole che possono suonar dure solo alle orecchie di persone che non hanno mai avuto quest'assistenza e che non sono state quindi nemmeno in grado di darla ai loro figli. Ma non suonano dure per coloro che abbiano sperimentato protezione e tenerezza nella loro infanzia, e che non siano dunque a loro volta dei figli inappagati. Per loro queste parole sono ovvie e scontate.

Picchiare un bambino, umiliarlo o farlo oggetto di abusi sessuali è un delitto, perché danneggia un individuo per tutta la sua esistenza. È importante che lo sappiano anche terze persone, perché l'apertura mentale e il coraggio dei testimoni possono avere un'importanza fondamentale, salvifica per un bambino. Dal dato di fatto che chiunque faccia del male a un bambino è stato a sua volta in passato vittima di maltrattamenti, non consegue infatti necessariamente che ogni individuo che sia stato maltrattato debba in futuro praticare violenza sui propri figli. Non è detto che questo debba ineluttabilmente avvenire, a patto che egli abbia avuto, durante l'infanzia, l'occasione — anche una sola occasione — di incontrare una persona capace di dargli dell'altro oltre all'educazione e alla crudeltà: un maestro, una zia, una vicina, una sorella, un fratello. Solo sperimentando l'amore e la comprensione il bambino riesce a valutare la crudeltà in quanto tale, a coglierla e a ribellarsi a essa. Senza quest'esperienza non può nemmeno sapere che al mondo può esistere dell'altro che non sia crudeltà, vi si assoggetterà quindi passivamente e l'eserciterà in seguito come la più normale delle cose quando — da adulto — si troverà a sua volta al potere.

Le persone che hanno aiutato Hitler a compiere i suoi misfatti e a sterminare interi popoli, devono aver patito, da bambini, qualcosa di simile a quello che ha sofferto lui: la presenza continua della violenza. Per questo il comportamento del Fuhrer è stato, di per sé, predeterminato e coerente. Non c'era stato nulla, nella sua infanzia, che avesse messo in discussione la violenza; evidentemente, da bambino, non aveva mai avuto a che fare con una persona, con un testimone consapevole e di mentalità aperta, che lo avesse preso sotto la sua protezione. Una persona simile, in determinate circostanze, avrebbe potuto aiutare il bambino a conservare intatte le proprie capacità di giudizio e il proprio carattere.

Per riconoscere la crudeltà, per rifiutarla recisamente, per risparmiarla ai propri figli, occorre almeno poterla cogliere come tale. I bambini che sono stati educati con severità e violenza non sono nella condizione di poterlo fare; hanno dovuto subire con gratitudine il trattamento loro riservato dai genitori, perdonare loro tutto, cercare sempre in se stessi le cause dei loro sfoghi, e non sono mai stati in grado di poter mettere in discussione i loro genitori.

Cosa succede quando un bambino cresciuto nell'amore, nella comprensione e nella sincerità viene improvvisamente picchiato? Grida, manifesta la sua collera, infine piange, esprime il suo dolore, e presumibilmente chiede: perché mi fai questo? Non accadrà invece nulla di tutto questo se a essere picchiato dai genitori — che egli ama — è un bambino addestrato da sempre all'ubbidienza passiva. Deve reprimere il dolore e la collera, e — per sopravvivere — è costretto a rimuovere quest'intera situazione: perché, per mostrare dolore, ha bisogno di confidenza e di essere sicuro che non lo si sopprimerà per questo. Un bambino maltrattato non ha modo di costituire questo rapporto di confidenza; e in effetti ci sono a volte dei bambini che vengono soppressi solo perché osano ribellarsi all'ingiustizia. Per sopravvivere in un ambiente ostile, il bambino deve quindi reprimere la sua rabbia. Deve reprimere anche le sensazioni di un dolore violento, sopraffattore: per non morirne. E così, su quest'intera situazione, cala il silenzio dell'oblio e i genitori vengono idealizzati: non hanno mai commesso degli errori. «E se mi hanno picchiato, vuoi dire che lo meritavo»: è questa la versione corrente dei traumi cui si è sopravvissuti. Oblio e rimozione sarebbero una soluzione accettabile se tutto finisse lì. Ma le sofferenze rimosse paralizzano la sensibilità e provocano l'insorgere d'una sintomatologia fisica. E — quel che è peggio — i risentimenti del bambino maltrattato, zittiti nel momento in cui erano fondati, e cioè nel rapporto coi genitori che erano la causa della sofferenza, tornano a manifestarsi nei confronti dei propri figli. È come se queste persone fossero rimaste per decenni chiuse in una trappola dalla quale non c'era via d'uscita perché nella nostra società la collera rivolta verso i genitori è vietata. Però nel momento della nascita di figli propri si apre una porta, e di lì si può sfogare senza alcun ritegno la collera accumulata per anni, disgraziatamente su una piccola creatura indifesa che ci si sente autorizzati a tormentare, spesso senza esserne nemmeno consapevoli: vi si è indotti da una forza sconosciuta.

Il dato di fatto che genitori maltrattino o trascurino spesso i figli negli stessi modi in cui lo facevano i propri genitori con loro — anche quando (anzi, appunto perché) non si rammentano nemmeno di quei tempi — dimostra che hanno immagazzinato in sé i loro traumi. Altrimenti non potrebbero nemmeno riprodurli. Lo fanno con una meticolosità stupefacente, che diviene palese non appena siano disposti a chiarirsi le cause della loro stessa impotenza anziché sfogarla sui loro figli e abusare del loro potere.

Ma come può una madre scoprire da sola questa verità, quando c'è una società che le intima: i bambini vanno educati alla disciplina, alla socialità e al buon comportamento? Chi si preoccupa se il cosiddetto 'coraggio di educare' è in realtà alimentato da un risentimento nei confronti della propria madre, risalente a decine di anni prima e mai analizzato in precedenza? La giovane donna non vuole nemmeno saperlo. Pensa: io ho il dovere di educare mio figlio alla disciplina, e lo faccio esattamente o similmente a come mia madre lo ha fatto con me. Dopo tutto non ne sono uscita male, dico bene? Mi sono diplomata con lode, mi sono impegnata nel lavoro della chiesa e nel movimento per la pace, mi sono sempre opposta alle ingiustizie. Solo nel caso dei miei figli non ho saputo impedirmi di picchiarli, senza neanche volerlo; ma non mi è stato possibile fare diversamente, ecco tutto. E spero che non li danneggi, esattamente come non ha danneggiato me.

Siamo talmente abituati a sentir dire cose come queste, che i più non ci fanno neanche caso. Eppure qualcuno rizza ugualmente le orecchie, e cioè le persone decise a guardare — dalla prospettiva del bambino — cosa c'è dietro le parole degli adulti; persone che in questo modo pervengono a nuove scoperte e non hanno più paura di dire le cose come stanno. Persone che giungono alla conclusione che la distruzione della vita umana non può più essere contrabbandata come 'amore malinteso' da parte dei genitori, e deve essere invece qualificata per ciò che è: un delitto. E i sensi di colpa dei genitori non devono essere banalizzati, ma presi sul serio. Stanno a indicare che nei genitori qualcosa si è smosso e che hanno bisogno di aiuto. E cercheranno anche questo aiuto quando sarà finalmente chiusa, con una scelta legislativa, l'unica altra via di sfogo ancora aperta e che conduce purtroppo alle violenze sui minori. Allora i genitori dovranno cercare un'altra strada: dovranno misurarsi col loro passato per uscire senza colpe dalla loro trappola emozionale.

Questo processo autenticamente liberatorio sarà reso accessibile ai genitori solo quando il bambino non fungerà più da capro espiatorio legalizzato. E non è detto che un padre che maltratti i propri figli debba necessariamente essere punito con la prigione. Si può pensare, per esempio, a un provvedimento giudiziario che imponga a un padre di allontanarsi per alcuni mesi dalla famiglia pur dovendo continuare a provvedere al suo sostentamento. Se questo padre, lasciato improvvisamente solo, si vedrà confrontato con i sentimenti della propria infanzia e incontrerà anche un testimone consapevole (forse nella persona di un assistente sociale bene informato e aggiornato) che lo aiuti a non rimuovere oltre la sua situazione di allora, in tal caso questo padre, quando tornerà in famiglia, non si esporrà più tanto facilmente al pericolo di maltrattare suo figlio. E il figlio farà l'esperienza autenticamente formativa di non essere cresciuto in una giungla, ma in una società umana che prende sul serio e rispetta il suo diritto alla sicurezza.

Una pena detentiva non può produrre cambiamenti interiori. Però nemmeno quei terapeuti che si sottraggano alla realtà all'insegna del motto «Aiutare anziché punire» possono contribuire a modificare l'atteggiamento dei genitori. Arrivano perfino al punto di sostenere che un divieto dei maltrattamenti sarebbe solo un'altra forma di violenza; non si dovrebbero insomma poter chiaramente chiamare i delitti per quello che sono, finché sono commessi sui propri figli, altrimenti i genitori si offenderebbero e potrebbero anche vendicarsi sui figli. È in questo modo che si esprimono, quasi all'unanimità, gli esponenti del mondo medico e della Lega per la protezione dell'infanzia.

Eppure sbagliano, e nei loro argomenti trapela la paura del bambino un tempo minacciato che vorrebbe arrivare in qualche modo a un accomodamento coi genitori, ed è quindi disposto a tacere e a far finta di niente. Ma la realtà dei fatti non da loro ragione. I paesi scandinavi hanno già sancito per legge l'obbligo di denuncia da parte dei medici, e la popolazione, grazie a questa legge, ha compreso che i diritti dei bambini non devono essere accantonati. La mia personale esperienza mi ha inoltre insegnato che certi genitori reagiscono alla verità meglio che alla sua banalizzazione, e che possono trar profitto da informazioni corrette.

Ogni individuo che si trovi in trappola cerca una via d'uscita. Ed è contento e grato se gli si indica una via d'uscita che non conduca al senso di colpa, né alla lesione fisica e psichica dei suoi figli. Nella maggior parte dei casi i genitori non sono dei mostri da tener buoni e calmi con frasi fatte perché non insorgano, bensì — spesso e a loro volta — dei figli disperati che debbono ancora imparare a guardare alla realtà e a prendere coscienza della loro responsabilità. Non hanno potuto apprenderlo da bambini perché i loro genitori non conoscevano questa responsabilità. L'avevano erroneamente fraintesa come un diritto all'abuso del loro potere.

Ora spetta ai giovani genitori il compito di riconoscere l'impraticabilità di questi 'insegnamenti' e di imparare dall'esperienza che fanno con i loro figli. Tuttavia questo nuovo processo può svolgersi solo a patto che anche per il legislatore sia inequivocabilmente chiaro che la violenza sul bambino danneggia l'individuo per tutta la vita e che questo danno non risulta minimamente sminuito dall'ignoranza di chi lo arreca. Solo mostrando l'intera verità a tutti coloro che sono coinvolti si può trovare una soluzione praticabile per i pericoli costituiti dalle violenze sui minori.

Il libro // bambino suddito di Carl-Heinz Mallet dimostra come i pedagoghi, dai tempi di Martin Luterò in poi, abbiano istigato i genitori a vessare e a punire i loro figli come se operassero in vece di Dio. La lettura di questo libro può aiutare i genitori d'oggi a capire perché si trovano in una trappola emozionale e quale prezzo essi e i loro figli devono pagare se si attengono ai valori tradizionali dell'educazione. La conseguenza può apparire paradossale, eppure è corretta: la via d'uscita dalla trappola fino ad oggi considerata legittima, e cioè la vessazione del bambino, sfocia nel crimine, e la via finora vietata, quella di aprire gli occhi e di criticare apertamente la condotta dei propri genitori, conduce fuori dal senso di colpa e alla salvezza dei nostri figli. L'opera di Mallet può essere di molto aiuto per i genitori che non conoscano i miei libri; vi constateranno, per la prima volta e con orrore, il male che è stato loro fatto e che, nella loro cecità, hanno riversato su altri. E questa sensazione di orrore basta già di per sé ad aprire la porta che conduce fuori dalla distruzione coatta della vita altrui, verso la libertà e la responsabilità.